Inferno, canto XXVII, Guido da Montefeltro

Già era dritta in su la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gìa
con la licenza del dolce poeta,

 quando un’altra, che dietro a lei venia,
ne fece volger gli occhi alla sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.

 Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temprato con sua lima,

mugghiava con la voce dell’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el parea dal dolor trafitto;

così per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertian le parole grame.

Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: « O tu, a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo:  “Istra ten va; più non t’adizzo”,

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco:
vedi che non incresce a me, e ardo!

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco,

dimmi se i Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui de’ monti là intra Urbino
e ‘l giogo di che Tever si disserra ».

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo:  « Parla tu; questi è latino ».

E io, ch’avea già pronta la risposta,
senza indugio a parlare incominciai:
« O anima che se’ laggiù nascosta,

     Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.

                40               Ravenna sta come stata è molt’anni:            (Ravenna)
l’aquila da Polenta la si cova,
                                     sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.                (Cervia) 

                 43              La terra che fe’ già  la lunga prova                           (Forlì)
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.

              46       E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verrucchio,         (Rimini)
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion , fan de’ denti succhio.

                 49            Le città di Lamone e di Santerno                 (Faenza e Imola)
conduce il leoncel dal nido bianco,
che muta parte dalla state al verno.

               52                  E quella cui il Savio bagna il fianco,                   (Cesena)
così com’ella sie’ tra ‘l piano o ‘l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.

    Ora chi se’ ti priego che ne conte:
non esser duro più ch’altri sia stato,
e ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte ».

Poscia che ‘l foco alquanto ebbe mugghiato
al modo suo, l’aguta punta  mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma starìa sanza più scosse;

ma però che giammai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
senza tema d’infamia ti rispondo.

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il credere mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise nelle prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.

Gli accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte; e sì menai lor arte,
ch’al fine della terra il suono uscìe.

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade, ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,

ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso!, e giovato sarebbe.

Lo principe de’ nuovi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin, né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri,
né mercatante in terra di Soldano;

né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerier della lebbre;
così mi chiese questi per maestro

a guerir della sua superba febbre:
domandommi consiglio, e io tacetti,
perché le sue parole parver ebbre.

E poi mi disse:  “ Tuo cor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
come tu sai; però son due le chiavi,
che ‘l mio antecessor non ebbe care “.

Allor mi pinser gli argomenti gravi
là ‘ve ‘l tacer mi fu avviso il peggio
e dissi:  “ Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar nell’alto seggio “.

Francesco venne poi, com’io fui morto,
per me; ma un de’ neri cherubini
gli disse:  “ Nol portar; non mi far torto.

Venir se ne dee giù  tra’ miei meschini,
perché diede il consiglio frodolente,
dal quale in qua stato gli sono a’ crini;

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente “.

Oh me dolente! Come mi riscossi
quando mi prese dicendomi:  “Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi! “

A Minòs mi portò; e quegli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,

disse: “ Questi è de’ rei del foco furo “,
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro ».

Quand’egli ebbe il suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo il corno arguto.

Noi passamm’oltre, e io e ‘l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
che copre il fosso in che si paga il fio

 136        a quei che scommettendo acquistan carco.

I commenti sono di Attilio Mimigliano  –     1945

                                                                                                                          …

 19-30. In complesso, questa prima presentazione di Guido non risponde alla forza della descrizione che l’ha preceduta, e sembra un po’ meschina per la provincialità dei versi 19-21; che sono un mezzuccio: altrimenti Guido non avrebbe saputo come individuare Virgilio. Che poi Virgilio, licenziando Ulisse avesse parlato lombardo, con la frase citata da Guido, è un particolare locale assolutamente stonato: proprio ora che ha voluto esser lui ad interrogare Ulisse, osservando «Ei sarebbero schivi, Perché fur Greci, forse del tuo detto », Virgilio usa una parola lombarda o parla con accento lombardo; ma, sopra tutto, un particolare così dimesso, e provinciale, stride dopo un racconto così solenne e universale come quello di Ulisse. Quanto alla frase di Virgilio, alcuni scrivono “Istra”, che sarebbe un lombardismo (ora); altri “Issa”, che è toscano e che si dovrebbe pensare pronunciato, come tutta la frase, con un accento lombardo. – Più non t’adizzo: non ti aizzo, non ti stimolo più a parlare.

 22. Ci fa immaginare, ma senza forza descrittiva, la corsa di questa fiamma lungo la bolgia per arrivare in tempo a parlare al pellegrino. Nella fiamma arde Guido da Montefeltro, guerriero romagnolo che diventa frate, credendo di fare ammenda dei suoi peccati.

 24. Bel verso patetico – quanta dolorosa mobilità in queste fiamme! Eppure Guido vuol fermarsi a sentir notizie della sua terra: e questa nota di dolore, che tuttavia è vinta dal ricordo della terra, questa nostalgia del dolce mondo in mezzo al mondo cieco, è quella che infonde un soffio di poesia anche in questa incerta parlata di Guido. Qui il motivo nostalgico, comune a tanti dannati, assume, in virtù di quel verso da martire, un accento singolarmente forte.

 27. Da cui io ho portato qui tutto il peso delle mie colpe.

 29-30. Perché fui anch’io romagnolo, della parte di Romagna che sta tra i monti d’Urbino e quelli d’onde sgorga il Tevere (del Montefeltro): la designazione è colorita, come se Guido, parlando, rivedesse quei luoghi.

 31. Per sentire le parole di Guido.

 34-54. Si è detto che, avendo Guido avuto molta parte nelle vicende guerresche della Romagna, è naturale che egli sia curioso delle sue condizioni presenti e che Dante gliene parli: questa è una giustificazione logica, non poetica. Questo tratto del canto, come l’inizio del XXVI, riguarda gli interessi politici di Dante, rientra nel quadro, o nella cronaca, della politica contemporanea tracciata da Dante attraverso il poema, ma rimane isolato dalla compagine poetica, e si regge decorosamente solo in virtù delle solite designazioni perifrastiche che hanno un po’ l’aria d’ingegnosi indovinelli.

 37-39. I signori di Romagna desiderano sempre la guerra; ma ora non c’è in Romagna nessuna guerra palese. Nel 1300 durava ancora la pace che era stata giurata l’anno prima.

 40-42. Ravenna era sotto i polentani fin dal 1270: la loro arme era l’aquila vermiglia in campo giallo; il loro dominio comprendeva anche Cervia.   – Vanni: ale.

 43-45. Forlì, che si difese a lungo, dal 1281 al 1283, contro i Francesi ed i Guelfi mandati dal papa Martino IV, e fece strage dei Francesi (allusione ad una vittoria di Guido da Montefeltro), è dominata dagli Ordelaffi (avevano per insegna un leone verde [ le branche sono gli artigli del leone ] in campo d’oro).  46-48. Nota il duro cipiglio di questa terzina.

 46. Sono entrambi chiamati mastini per la loro ferocia: v. sotto fan de’ denti succhio, fanno succhiello dei denti, azzannano. Il vecchio è Malatesta da Verucchio, padre di Gianciotto, di Paolo e di Malatestino (il nuovo); fu signore di Rimini dal 1295 al 1312.

 47. Malatesta e Malatestino, fecero uccidere in carcere il capo ghibellino Montagna de’ Parcitadi: fatto feroce, trucemente rievocato dal D’Annunzio nel suo poema di sangue e di lussuria (Francesca da Rimini).

 49-51. Faenza (bagnata dal Lamone) e Imola (posta vicino al Santerno) sono governate da Maghinardo di Pagano da Susinana (aveva come arme un leone azzurro in campo bianco), che si allea ora con una fazione, ora con un’altra.

 52-54. E Cesena, come è posta fra piano e collina, così vive fra tirannide e libertà: perché nel 1300 essa era retta da un podestà, il quale, però teneva la carica già da quattro anni.

 56. Ulisse aveva accondisceso a questo desiderio. Alcuni commentatori riferiscono altri a Dante: Non esser duro più che non sia stato io, che ho accondisceso al tuo desiderio.

 57. Il solito se desiderativo: Così possa il tuo nome durare nel mondo. L’augurio, non riesce gradito a Guido, il quale, conscio delle sue colpe, desidera esser dimenticato nel mondo: vv. 61-63.

 58-60. Più vivo che il movimento della fiamma al principio del canto: preannunzia la sinistra drammaticità di quel che segue, come nell’episodio di Ulisse (Inf., XXVI, 85-90);  si sente che il tono muta, che qualcosa incomincia. Altri grandi episodi della Divina Commedia cominciano con uno stacco e con una mossa in cui già si riflette intera la personalità del protagonista: vedi quello di Paolo e Francesca (Inf., V. 70-75), di Farinata (Inf., X, 22-28), di Manfredi (Purg. III, 105-8), di Belacqua (Purg. IV, 97-99).

 60. Mandò fuori queste parole.

61-66. Senti com’è potente il giro del periodo, quando ha già del ritratto questo ritmo.

Non dice: « Non ti risponderei »;  ma “Questa fiamma staria sanza più scosse”;  e termina: “Sanza tema d’infamia ti rispondo”, dove permane ancora l’intrepidezza dell’antico uomo, di quello che più sotto Dante dipingerà con una parola così larga e dominatrice ( « Gli accorgimenti e le coperte vie Io seppi tutte; e sì menai lor arte, Ch’al fine della terra il suono uscie » ). Tutta questa prima parte, fino al v. 78, è un robusto ritratto, d’un piglio sicuro, d’un colore unito. Dimenticate la fiamma, e vi vedete dinanzi l’uomo, chiuso nella sua antica armatura.

67. Cordigliero: frate francescano; i francescani, hanno per cintura un cordiglio.

68. Si sarebbe avverato interamente. Le parole di Guido, hanno sempre il medesimo ritmo largo e scuro; sempre quello che più lo dipinge è questo ritmo, che conserva la gagliardia tempestosa di quella tempra e in cui risenti il suono della fiamma: « Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato ».

70. Bonifacio VIII. Nota questa imprecazione, anch’essa  così robusta. Tutto questo discorso rende un fremito profondo: in un’opera musicale, sarebbe una gran parte da basso.

71. Mi fece ricadere nelle antiche colpe (i consigli fraudolenti)

72 sgg. Questo racconto è la sua vendetta: e per farla dimentica che così copre d’infamia anche se stesso. Racconta con scaltrezza, con una sobrietà, un ordine, un’attenzione da grande oratore: è ancora quello delle « coperte vie ». Si vendica di Bonifacio VIII, come Ugolino dell’arcivescovo Ruggieri, ma con un’eloquenza più nuda, senza parentesi appassionate: Ugolino è un padre straziato, Guido uno scaltro formidabile, vittima di un obliquo ricatto. E lo svela con una disposizione magistrale di luci ed ombre, in una scena a due ritratti dove accanto a lui si leva, ombra dominante, la figura sinistra di Bonifacio VIII.

73-74. Caratteristica anche questa perifrasi (finché rimasi in vita; l’anima è la forma, il principio informativo del corpo):  ha la muscolatura del guerriero.

75. Anche qui quel giro squillante.

77-78. E li condussi così bene, che infine se ne sparse la fama sino ai confini del mondo.

79-83. Qui il ritratto cambia aspetto: all’ « uom d’arme » sottentra il « cordigliero », alle frodi che si dilatano stupendamente per tutto il mondo, sottentra il raccoglimento, ma la tempra rimane quella, come nell’Innominato convertito, e il ritmo continua a dipingerla. Vedi sopra tutto il verso “Calar le vele e raccoglier le sarte”. – Fa riscontro a questo passo un tratto del Convivio:  « La naturale morte è quasi porto a noi di lunga navigazione, e riposo. Ed è così;  [ ché ] come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debole, conducimento, entra in quello; così noi dovremo calar le vele de le nostre mondane operazioni, e tornare a Dio con tutto il nostro intendimento e cuore; sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace » (IV, XXVIII, 8)

– Sarte: sartie, corde delle vele.

83. Mi rendei: mi feci frate.

85-97. È il centro oratorio del racconto, una requisitoria serrata come una maglia d’acciaio. E non è eloquenza, ma poesia: proietta un fascio di luce sulla figura che nella scena del consiglio frodolento si profilerà come un’ombra, smaschera in anticipo il tentatore del chiuso conciliabolo, sgomina con una falange di argomenti, l’argomentazione lenta e sommessa di Bonifacio VIII.uesto racconto è la sua vendetta

 85. Il capo dei sacerdoti (fariseo è il finto religioso), Bonifacio VIII: che nel 1300 era ancora vivo.

86. Presso Roma. Il Laterano era il palazzo dove abitavano i papi. Bonifacio VIII fu in guerra contro i Colonna dal 1297 al 1298.

87. Non con i nemici del cristianesimo.

89. I Saraceni, nel 1291 avevano conquistato Acri, che era l’ultima città palestinese rimasta in mano dei Cristiani.

90. La Chiesa aveva vietato di mercanteggiare in terra di Saraceni.

91-93.  Non ebbe riguardo né al fatto che egli era il capo della Cristianità e sacerdote, né al fatto che io portavo il capestro francescano che, nei tempi buoni dell’ordine, soleva indurre a vita di penitenza chi lo cingeva. Doppia profanazione, dunque: nel tentatore e nel tentato. – Il v. 93 allude a quella degenerazione dell’ordine, contro la quale si scaglierà San Bonaventura nel XII del Paradiso (vv. 112 e sgg.).

94-95. Leggenda, che ai tempi di Dante era creduta storia: l’imperatore Costantino chiamò dalle grotte del monte Soratte, papa Silvestro perché lo guarisse dalla lebbra; e allora Costantino si convertì. I medici si chiamavano maestri.

94-97. Sulla fine della requisitoria la parola si fa più scolpita e più martellante: vedi la perfetta simmetria fra i vv. 94-95 e 96-97, e la violenta sottolineatura della rima tra lebbre e febbre; e nota la dura ironia del paragone, la costante unità di questo stile da duellante catafratto.

98-111. Dopo la requisitoria, la scena della tentazione: quella è squillante, questa è tutta chiusa nel silenzio e nell’ombra; come se Guido volesse alzare la tenda su questo grande retroscena della storia.  Non dobbiamo dimenticare che chi muove le fila di quest’episodio è Dante, e che perciò quest’episodio in cui Dante, la vittima di Bonifacio VIII, è così vitalmente interessato, è infuso di un’acre malizia: Guido ha detto che parlerà perché sa che le sue parole non saranno riportate nel mondo, che parlerà senza tema d’infamia; le sue parole, invece, risuonano sul più gran palcoscenico del mondo, la Divina Commedia, e l’infamia non ricade veramente su di lui, ma su Bonifazio VIII, il tentatore di Guido, e l’avversario di Dante. Una simile malizia, ma meno bieca, abbiamo trovato nel canto dei simoniaci, dove Bonifazio sembra condannato per equivoco.

98-111. Apparentemente questo non è che dialogo: ma sotto di esso si vede il lavoro nascosto delle due coscienze, e intorno, senza che una parola vi accenni, l’aria segreta della sala del conciliabolo. Nota le pause:  «  Domandommi consiglio;  e io tacetti »;  « E poi mi disse »  (la Dantesca ha sostituto una lezione prosastica, logica:  « E’ poi ridisse »:  come in X, 88);  « Allor mi pinser gli argomenti gravi…»

101. Finor: fin d’ora.

102. Bonifazio VIII domanda a Guido come prendere Palestrina, la fortezza dei Colonnesi.

103-5. Parole lente, avvolgenti: Come tu sai è sottolineato dalla voce e dallo sguardo; “Le chiavi Che il mio antecessor non ebbe care”, non è una perifrasi (le chiavi pontificie), ma una dura affermazione di potere, un pensiero beffardo di trionfo: quell’inetto predecessore, che non conobbe il valore  della potenza che aveva fra mani. (il papa che abdicò) La figura di « Colui Che fece per viltà il gran rifiuto » è quasi riscattata dalla sacrilega empietà del suo successore. Questi versi sono una perifrasi delle parole del Vangelo di San Matteo. Dove è detto che San Pietro può con le sue chiavi aprire e negare il regno dei cieli ( XVI, 19): così può fare il pontefice, successore di San Pietro.

106-7. Mi spinsero a pensare che il tacere fosse il peggio.

108-9. La risoluzione è drammatica, ma il dramma è condensato con la solita virile sobrietà in questo preambolo – sillabato come la subordinazione di Bonifazio – che esprime la coscienza della costrizione (ov’io mo cader deggio): sempre, il protagonista appare Bonifazio, e Guido sembra raccontare, non il proprio peccato, ma quello del suo violento tentatore.

110-11. Prometter molto e mantener poco ti farà trionfare, « siccome pontefice (“nell’alto seggio”),  di coloro che, come i Colonnesi (fra i quali due cardinali), impugnavano anche la legittimità dell’ elezione di Bonifacio a Pontefice » (Del Lungo)

112. sgg. Dopo la colpa, la pena, senza intervallo. L’ultimo tratto di grand’eloquenza è questo passar sotto silenzio tutto quanto è seguito della sua vita, e mostrar solo le conseguenze del consiglio estorto. Il trapasso improvviso getta un’ombra più scura sulla persona di Bonifazio VIII, se ne fa il padrone satanico di un destino. –  San Francesco va per prender l’anima del frate che è appartenuto al suo ordine, ma un diavolo glie la contende. E il diavolo viene a collocarsi come terzo ritratto accanto ai primi due: un frate, un papa, un diavolo; uno scaltro, un perfido, un loico trionfante, e formano un trittico di mirabile armonia.

115. Meschini: servi.

117. È l’antecedente drammatico taciuto nel trapasso fra i vv. 106-11 e i vv. 112-14; ed è come un diabolico schizzo in penombra degli ultimi giorni di Guido.

118-20. Perché l’assoluzione di Bonifazio VIII fosse valida,  bisognerebbe che Guido si fosse pentito nell’atto stesso che (voleva) commetteva il peccato: il che è assurdo. E poiché non s’è pentito, non può essere assolto. Il diavolo, apparentemente trionfa di Guido, in realtà trionfa del papa che ha creduto di poter dare l’assoluzione. Anche qui il protagonista è, più che Guido, Bonifazio VIII.

121.22. Anche questo atto di Guido (Come mi riscossi!) ritiene della sua tempra gagliarda. Tutto il suo discorso porta un’impronta disperata e virile. Non indugia in commenti, in particolari: argomenta dove l’apologia lo richiede; lascia parlare i fatti, quando questi, accostati, sono per se stessi eloquenti; divide la sua vita in pochi quadri significativi: la rete dei consigli frodolenti; la conversione; la ricaduta; la dannazione: epilogo, il giudizio di Minasse, che, reciso e scuro, sembra intervenire quarto personaggio in questa sinistra accolta di spiriti demoniaci. In tutto l’episodio c’è una superba unità di stile, rara anche in Dante: un piglio, un suono, un colore della frase in cui si traduce indefettibilmente lo spirito amaro e risoluto di Guido. Il quale sembra, ancora qui, chiuso nella sua armatura di guerriero: così quando incomincia – « S’io credessi che mia risposta fosse…» – , come quando conclude, con una constatazione nuda, appena commentata dal fremito sordo della voce – Per ch’io là dove vedi son perduto, E sì vestito, andando, mi rancuro. – E le parole con cui Dante descrive l’allontanarsi della sua fiamma ritengono ancora di quella virile sobrietà di patos, e sono il coronamento musicale di quella magistrale orazione. Nella terzina di Dante (130-32) il dolore passa come una folata breve di vento. Dante non commenta, ma tutto il tono dell’episodio, e particolarmente la dignità dell’esordio e della chiusa e la severità della descrizione di quella fiamma che si allontana, dicono che egli non ha per Guido gli abituali sentimenti di disprezzo e di sdegno, e che qualche cosa in lui gli impone il rispetto. In Guido, come in tutti i grandi personaggi del poema, c’è l’uomo vecchio e il nuovo: se non vi fosse che il secondo, l’Inferno e il Purgatorio si ridurrebbero a rassegne scolorite: come succede per lo più nel Paradiso.

Guido nacque circa il 1220. Fu capitano generale dei Ghibellini di Romagna, e come tale sconfisse replicatamene i Guelfi nel 1275. Confinato dalla Chiesa, riprese la lotta contro i Guelfi nel 1292. Riconciliatosi con la Chiesa, nel 1296 si fece francescano. Una tradizione raccolta dal cronista Riccobaldo ferrarese racconta che a lui ricorse poi nel 1298 BonifazioVIII perché si mettesse a capo delle soldatesche contro i Colonna, e che, avendo egli rifiutato, il papa, gli chiede di consigliarlo almeno intorno al modo di soggiogarli; allora Guido rispose con il famoso consiglio. Le cronache esaltano il suo valore e la sua scaltrezza. Ma Guido è, come Francesca e come Ugolino, uno di quei personaggi della Commedia a cui un’illustrazione storica toglie la grandezza ideale che gli ha conferito la poesia.

127. Della fiamma che avvolge, che sottrae alla vista i peccatori. Cfr. 129: sì vestito: vestito della fiamma.

129. Senti, con il dolore, quell’inquietudine eterna: andando.Mi rancuro, i commentatori spiegano: mi dolgo o simili; ma mi rancuro ha un significato più preciso, più aderente alla personalità poetica di Guido: indica un dolore chiuso, il rodìo di un forte.

134-36. Sul ponte che copre la bolgia in cui si paga il fio da quelli che si caricano di colpa separando coloro che dovrebbero essere uniti, seminando discordie.

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Un commento a “Inferno, canto XXVII, Guido da Montefeltro”

  1. […] Nell’ottava fossa, troviamo i cattivi consiglieri: Ulisse, Diomede, Guido da Montefeltro e scontano la pena avvolti fra le fiamme. Canti XXVI-XXVII. […]

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