“Ravenna”, poesia di Hermann Hesse del 1901

I

Sono stato anche a Ravenna.
E’ una piccola città morta,
ricca di chiese e di rovine,
di cui notizia più d’un libro porta.

 Tu l’attraversi e poi ti guardi intorno,
le sue strade sono torbide e bagnate
e sono da un millennio mute
e dappertutto trovi erba e muschio.

E’ come per le canzoni un po’ passate:
nessuno ride dopo averle ascoltate;
ma poi tutti le voglion riascoltare;
e sino a tarda notte meditare.

 II

Le donne di Ravenna portano
negli occhi profondi e nei teneri gesti
in sé una coscienza dei giorni
dell’antica città e delle sue feste.

Le donne di Ravenna piangono
profonde e sommesse, come bambini quieti.
E quando ridono, pare di sentire
di un testo cupo la chiara melodia.

 Le donne di Ravenna pregano
come bambini:  miti e appagate.
Parole d’amore posson dire:
e loro stesse non sanno di mentire.

                                                                            Le donne di Ravenna baciano
                                                                                 con strana e profonda dedizione.
                                                                              E loro della vita altro non sanno
                                                                          se non che tutti dobbiamo morire.

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“DALL’ITALIA”, Hesse, scrive di Pascoli

Il raffinato poeta italiano Giovanni Pascoli, da poco scomparso, è stato sinora tradotto ben poco.

Adesso, Benno Geiger ha tradotto in tedesco (per i tipi di Kurt Wolff) una piccola raccolta, quasi troppo ridotta, delle sue poesie, soprattutto delle prime. Pascoli è sicuramente difficile da tradurre, non è facile da leggere neppure in originale; inoltre, molti dei suoi delicati Poemetti  sono così carichi della sua musicalità descrittiva che una traduzione pare quasi impossibile.  E’ con vivo interesse che si leggono gli esperimenti di Geiger, e sorprendono la duttilità e la bellezza con cui queste versioni seguono l’originale, nonostante alcune forzature e invero alcuni fraintendimenti.

Meritano partecipazione e rispetto, essendo il primo tentativo serio ed artistico di introdurre in Germania questo pregevolissimo poeta italiano. Pascoli riesce a captare i toni più delicati, a dipingere le atmosfere più interiori: è un maestro del quadretto lirico chiuso, di tipo quasi giapponese; inoltre ha la dimestichezza con i classici tipica dell’italiano colto. Non è improbabile che eserciti la sua influenza anche sulla poesia tedesca.

(da Munchner Zeitung del 5 giugno 1914)

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La piadina tradizionale e quella libera

La piadina, è un prodotto tipico, è considerata il pane dei romagnoli, preparato fin dai tempi degli antichi romani. Giovanni Pascoli, ha scritto una poesia sulla piadina. Ai suoi tempi, era il pane che si faceva da soli in campagna. Marino Moretti, in seguito, ha dedicato una poesia alla piadina. Recentemente, alla piadina è stato assegnato il marchio IGP, Indicazione d’Origine Protetta. Tradizionalmente, era un pane azzimo (senza lievito) che si faceva con acqua, farina e sale e in seguito con l’aggiunta di strutto. Ai nostri tempi è consentito anche l’uso dell’olio d’oliva per esigenze dietetiche, ma la piadina tradizionale, si fa con lo strutto, il grasso del maiale. Eventualmente, conviene diminuire la quantità di strutto al 10% e utilizzare metà acqua e latte. Per un chilogrammo di farina tipo zero, è previsto dal 10 al 20% di strutto, cinquanta grammi di lievito chimico, tipo per torte salate o baking, venti grammi di zucchero o miele, l’acqua o il latte (tiepidi) devono essere circa la metà della farina, dodici grammi di sale. L’impasto, deve riposare coperto circa un’ora a pezzi o a palline che variano dai 50 ai 200 g. Con questa ricetta e ingredienti di qualità, riuscirete tutti a fare una buona piadina, “il pane che si fa da soli”.  Mi permetto però di fare un’osservazione personale.  La piadina tradizionale, si faceva in campagna, qui si svolgevano lavori pesanti e si smaltivano anche le calorie dei grassi aggiunti. Ai giorni nostri, la gente lavora in ufficio e fa poco movimento, e difficilmente riesce a smaltire i grassi della piadina se si mangia in sostituzione del pane. Nella piadina fatta in casa, conviene mettere meno del 5% di grassi e usare l’olio d’oliva. La piadina dei chioschi e industriale deve attenersi al regolamento IGP che prevede l’aggiunta del 10-20% d’olio o strutto. Io, nel regolamento, avrei messo da zero a duecento la quantità di grassi, perché i tempi sono cambiati. Con una quantità maggiore di grassi, è più saporita, ma negli alimenti ci sono troppi grassi.

La piadina tradizionale, si cucina sul “testo”, un disco di terracotta, prodotto a Montetiffi di Sogliano, o in piastre d’altro materiale. Generalmente, si cucina un minuto per lato (o di più, in base allo spessore) sul testo rovente, forando la piadina con una forchetta. La piadina, non è uguale in tutta la Romagna. Come la Romagna, presenta diversi aspetti. In provincia di Ravenna, è più grossa e più piccola. A Cesena, è un poco più sottile che a Ravenna. A Rimini, è ancora più sottile e più grande, è simile alla “tortilla” messicana.

Nei ristoranti messicani si farcisce con strisce di pollo e peperoni. Nella provincia di Rimini, a Morciano e nelle Marche, c’è la versione “sfogliata”, lavorata come la pasta sfoglia, piegando più volte l’impasto, ungendola con olio ad ogni “piega”. Questa versione della piadina, è più saporita, ma anche più ricca di grassi. Chi passa dalla Romagna, non può fare a meno di vedere i chioschi della piadina, sparsi un po’ ovunque in tutti i Comuni.

Ormai, la piadina ha ottenuto la stessa fama della pizza e ci sono aziende che la esportano in tutto il mondo.

La piadina si accompagna con i brodetti di pesce, o i fagioli con le cotiche, la trippa, un altro piatto rustico di campagna, con lo “squacquerone”, (formaggio molle simile allo stracchino) e la rucola. Si farcisce cotta, con la porchetta e i salumi; con la salsiccia, i peperoni e le cipolle grigliate. Ai giorni nostri, nei chioschi, deve sopportare ogni tipo di farcitura, anche la crema di nocciole! Nei chioschi, si fanno altre preparazioni della piadina: i “crescioni”, dove si farcisce la piadina a crudo, piegata a metà con verdure o pomodoro e mozzarella e altre farciture.  Un’altra preparazione dei giorni nostri, è il “rotolo” che si presenta anch’esso con diverse farciture. Purtroppo, nel chiosco, non c’è il vino per degustare la piadina nel modo tradizionale, si vendono bibite in lattina che dovrebbero essere abolite anche in Italia!  Alcuni paesi, non utilizzano le lattine, per le bibite, ma il vetro.  A mio parere, per le bibite, sarebbe meglio ritornare al metodo tradizionale della resa del vetro e abolire le lattine d’alluminio e le bottiglie di plastica. Sarebbe più opportuno mettere nei chioschi delle piccole bottiglie di vino come negli Autogrill per accompagnare la piadina con i vini della Romagna. Per i “buffet” o gli antipasti, se si ha tempo si possono fare anche delle piccole piadine col tagliapasta.

La piadina, è sempre stata considerata “cibo da poveri”, tanto che non è citata dall’illustre gastronomo di Forlimpopoli Pellegrino Artusi, quando pubblicò a sue spese un trattato di cucina di gran successo: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.

                                                           

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La piada (poesia di Giovanni Pascoli)

 

I

Il vento come un mostro ebbro mugliare
udii notturno. Errava non veduto
tra i monti, e poi s’urtava al casolare

piccolo, ed in un lungo ululo acuto
fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora
più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.

L’udii tutta la notte, ed all’aurora
non più. Dormii. Sognai, su la mattina,
che la pace scendeva a chi lavora.

Or vedo: scende. Scende: era divina
l’anima. Il cielo tutto a terra cade
col bianco polverìo d’una rovina.

Non un’orma. Vanite anche le strade.
La terra è tutto un solo mare a onde
bianche, di porche ov’erano le biade.

Resta il mio casolare unico, donde
esploro in vano. Non c’è più nessuno.
E solo a me che chiamo, ecco risponde
il pigolio d’ un passero digiuno.

II

Sul liscio faggio danzi corra voli,
Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:
facciamo il pane che si fa da soli!

Voli lo staccio e treppichi giocondo,
vaporando il suo bianco alito fino,
che si depone sul tuo capo biondo.

O lieve staccio, io t’amo. Il tuo destino
somiglia al mio: tener la crusca;  il fiore,
spargerlo puro per il tuo cammino.

E fai codesto con un tuo rumore
lieto, in cadenza: semplice, ma bello
per l’orecchio del pio lavoratore.

Ma triste, sotto mezzodì, per quello
del viandante, che rasenta i triti
limitari del lungo paesello:

ch’ode un danzar segreto, ode tra i diti
di donna sola, in ogni casa, andare
e, casalingo cembalo, che inviti
lo sciame errante al tacito alveare.

III

Taci, querulo passero:  t’invito.
Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
taci: or ora imbandisco il mio convito.

Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull’aròla pongo, oltre i sarmenti,
i gambi del granoturco, abili al fuoco.

Io li riposi già per ciò. Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
che la maciulla gramolò tra i denti.

Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
anche i fuscelli per il mio letargo.

Serbo per il mio verno anche le foglie.
Del granoturco, ecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.

Ciò che secca e che cade e che s’oblia,
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
si stacca triste e che poi fa che sia
morbido il sonno, il giorno che si muore.

IV

Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.

Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni
il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.

Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condisci, e manca sulla mensa.

Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande

come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi, e me l’adagi molle
sul testo caldo, e quindi t’allontani.

Io, lo giuro, e le attizzo con le molle
sotto, fin che stride invasa
dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l’odore del pane empie la casa.

V

Chi picchia all’uscio? Tu forse, Aasvero,
che ancor cammini per la terra vana,
arida foglia per un cimitero?

Chi picchia all’uscio?… E fioca una campana
suona…Chi suona? Forse un vecchio prete,
restato a guardia della tomba umana?

E’ solo; e ancora a mezzodì ripete
l’Angelus, ed a rincasare invita,
morti, voi, che sotterra ora mietete.

Socchiudo l’uscio. – Antica ombra smarrita,
che in cerca erri del corpo; ultima foglia,
che stridi ancora dove fu la vita;

qual vento t’ha portato alla mia soglia,
vecchio ramingo, ultima foglia morta
d’albero immenso che non più germoglia?

Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
necessità. Sei vivo: soffri! Vivo
sei: piangi!  Ed ecco, dunque, apro la porta:
entra, fratello; ché ancor io…sì, vivo. –

VI

Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco
l’azimo antico degli eroi, che cupi
sedeano all’ombra della nave in secco

(si levarono grandi sulle rupi
l’aquile; e nella macchia era tra i rovi
un inquieto guaiolar di lupi…):

il pane della povertà, che trovi
tu, reduce aratore, esca veloce,
che sol s’intrise all’apparir dei bovi:

il pane dell’umanità che cuoce
mezzo a tutti, sopra l’ara, e intorno
poi si partisce in forma della croce:

il pane della libertà, che il forno
sdegna venale; cui partisci, o padre,
tu, nelle più soavi ore del giorno:

ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
più, i più grandi, e assai forse nessuno;
o forse n’ebbe più che assai la madre,
cui n’avanza da darne un po’ per uno.

VII

Azimo santo e povero dei mesti
agricoltori, il pane del passaggio
 sei, che s’accompagna all’erbe agresti;

il pane, che, verrà tempo e nel raggio
del cielo, sulla terra alma, gli umani
lavoreranno nel calendimaggio.

Ché porranno quel dì su gli altipiani
e tende, e nel comune attendamento
l’arte ognun ciberà delle sue mani.

Ecco il gran fuoco, che s’accende al vento
di primavera. Ma in disparte, gravi,
ulla palma le bianche onde del mento,

parlano i vecchi di non so che schiavi
d’altri e di sé:  ma sembrano parole
sepolte, dei lontani avi degli avi.

Guardano poi la prole della prole
seder concorde, e, con le donne loro
e i loro figli, in terra sotto il sole,
frangere in pace il pane del lavoro.

Giovanni Pascoli     […]

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Romagna

Sempre un villaggio, sempre una campagna
Mi ride al cuore  (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuor il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,

oh! Fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.

Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano  al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;

e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.

Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interinati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepitio di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura,
Tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,

Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Giovanni Pascoli

Un villaggio: San Mauro Pascoli, dove è nato il poeta, il 31 dicembre 1855

Mi ride al cuore (o piange): suscita in me ricordi lieti o tristi

Severino:  Ferrari (1856-1905) poeta romagnolo amico di Pascoli e allievo di Carducci

Il paese: la Romagna

L’azzurra…San Marinoil monte di San Marino, si vede da tutta la Romagna e da lontano,  è azzurro

Guidi e Malatesta: nobili di Modigliana e  Rimini

Cui tenne pure il Passator  cortese: il bandito Stefano Pelloni, di professione traghettatore, lo chiama cortese, perché rubava ai ricchi e dava ai poveri.

L’altrui covata: cova anche le uova di gallina.

Opache: buie; rezzo: ombra; trine: foglie e fiori di mimosa sembrano pizzo. Pioppo…chiassoso: abitato da uccelli. Immobilmente: con la fantasia. Guidon selvaggio…Astolfo: personaggi dell’Orlando Furioso

L’imperatore nell’eremitaggio: Napoleone a S. Elena

Aereo: alto nel cielo;  ippogrifo: cavallo alato col quale Astolfo và sulla luna. Pel  sognato alone: corona luminosa che a volte circonda la luna. Il dettare di Napoleone: a Sant’Elena dettò le sue memorie.

Poema: gracidio delle rane.Giorno nero: dopo la morte del padre, lasciò S. Mauro. La mia patria or è dove si vive: non è più il paese natale, ma il luogo in cui deve vivere. Ch’io non…i piccolini:  per non trovare fra le mie piante i piccoli del cuculo (cioè non ritrovare estranei nella mia casa). Il cuculo fa le uova nel nido di un altro uccello che trova figli non suoi.

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